Emozioni di un incontro con la demenza senile

Chiunque abbia avuto il privilegio di avere accanto a sé un anziano potrebbe essersi misurato con la dolorosa esperienza della demenza senile.
Accettare che una persona cara si dimentichi dei propri familiari e amici può essere traumatico per chi lo vive. E non è certo sempre possibile trovare un poco di poesia, anche in questa sofferenza.

Eppure talvolta si può. È questo che mi ha spiegato un’amica, nel confidarmi le emozioni di un incontro con l’anziana nonna. Il racconto di quel giorno (di seguito riportato) custodisce in sé il buio della inconsapevole dimenticanza di lei e, insieme, un bagliore di luce, nascente da un affetto viscerale che è capace di scavalcare anche le coordinate della memoria.

<< Sull’uscio di casa c’è una vecchia signora che mi chiama col nome della sorella.
Lo fa perché non ricorda il mio, o meglio, non ricorda più bene chi io sia.

Sull’uscio di casa, questa vecchia signora ha una guancia rovente. La porge a un piccolo fascio di luce che attraversa i pergolati della vite. L’altra guancia è mortalmente fredda.

Ti piace questo sole?”, mi chiede, come se il sole che splende nella sua casa sia diverso da quello che riscalda le altre, altrove. Mi chiede “ti piace il sole?” e mentre lo fa scorgo, come per la prima volta, la vacuità nei suoi occhi. Una patina liquida che sola è lo spessore tra lei e il dopo di lei. 

Mi chiedo se il vuoto degli occhi rifletta il buio della mente, l’assenza di ricordi, di persone nei ricordi; di una vita trascorsa che è ancora, chissà dove, una realtà presente. Di cui io, dolorosamente, mi accorgo di non fare parte.
Eppure, nonostante la coscienza di tutto il prima sia come svanita, rimane il qui e ora: il calore del sole sulla pelle della guancia destra e la sete, avida, d’un succo al sapore di pera poggiato sulla credenza antica. Non posso spostarlo nemmeno d’un centimetro perché quel gesto scatena in lei un’ira immotivata, furiosa. 

La sua mente, dov’è? La mente confusa di questa vecchia signora che, sull’uscio di casa, conta gli anni che tra qualche giorno compirà. Novantasei. Continua a chiamarmi col nome della sorella. Ma in fondo che importa se non è il mio, perché comunque questo mio odore, queste mie sembianze – o è forse la mia voce – c’è un tutto, in me, che le ricorda un essere umano da amare e che ama, di cui fidarsi e di cui si fida. Che importa, allora, se lo chiama con un nome sbagliato? 

Non importa. 

Allo stesso modo, non importa quanta pazienza io abbia di ripetere chi io sia, di spiegare cosa faccia, di cercare l’assenso della sua comprensione. Tutto, tutto è di nuovo inesorabilmente dimenticato l’attimo dopo che è stato detto. Tutto, tutto viene dimenticato, ma non quanto appartiene alle antiche e intuitive coordinate d’affetto, perché comunque questo mio odore e queste mie sembianze le dicono chi io sia. E allora, che importa dire ciò che faccio nelle mie giornate, le persone con cui mi incontro, gli studi che ho compiuto e se li ho portati a termine, che importa davanti alla persona che, per lei adesso, sono, anche in assenza di tutte queste informazioni?
Sovrabbondanti, perché io sono nonostante ciò che faccio e, infatti, questa piccola somma di me – odore, sembianze, voce – è sufficiente a far brillare d’una luce gentile i suoi occhi satinati, d’un bagliore trasparente, dolce, lo stesso di questo sole invernale fiacco. Dentro la sua testa sì, sono confusa, ma presente, ora come allora, al di là di ogni informazione sovrabbondante che ostinatamente ho provato a darle. 

Non importa se sull’uscio di casa, nella mente del poco dopo, per questa anziana signora io non mi sarò mai fermata per davvero. Perché tutto ciò che ha detto, prima che andassi, è stato comunicarmi l’essenza del suo amore, contro la liquidità della memoria: “speriamo, figlia mia, che anche dove vai tu, ora, ci sia questo bel sole.” >>

Sara Porru