Il museo delle maschere mediterranee a Mamoiada

Un percorso esperienziale nelle viscere delle tradizioni carnascialesche 

Ribaltare e rovesciare il mondo, i ruoli, le gerarchie e tutta la consuetudine della quotidianità: questo è lo spirito del carnevale.

In epoca contemporanea, il carnevale è stato imbrigliato nella morsa delle feste a base di carri allegorici che in realtà hanno poco a che fare con l’origine di questa antica festività.

Infatti, il carnem levare (eliminare la carne) trae origine dai navigium Isidis, dei festeggiamenti in onore della dea egizia Iside; furono i Romani a importare questa tradizione, nella quale si esibivano gruppi mascherati, come peraltro descritto nelle Metamorfosi di Apuleio (libro XI).

In Sardegna, il carnevale tradizionale è chiamato “carrasecare” (etimologicamente carne viva da smembrare); si tratta di un rito tragico e luttuoso, basato sul concetto di morte e rinascita che secondo alcuni studiosi è strettamente connesso alle feste dionisiache. Inizia ufficialmente il 17 gennaio, giorno in cui si festeggia Sant’Antonio Abate. È durante questa festa, emblema del sincretismo pagano cristiano, che avviene la prima uscita di tutte le maschere tradizionali.

A Mamoiada, piccolo paese sardo dell’entroterra barbaricino, esiste un Museo nato con l’intento di mettere in contatto e creare un momento di confronto tra l’universo culturale del paese, nota per le sue maschere tipiche (Mamuthones e Issohadores), e l’anima delle rappresentazioni carnascialesche del Mediterraneo. In particolar modo, l’attenzione di quest’istituzione è rivolta verso le forme di mascheramento in cui è frequente l’utilizzo di maschere facciali lignee zoomorfe, di pelli di pecora o montone, di campanacci o di oggetti che possono emettere dei rumori. In questo paese, il giorno di Sant’Antonio vengono accesi fuochi in tutto il paese e le maschere danzano attorno per tre volte, rinnovando un rito propiziatorio legato all’abbondanza del raccolto. Non si tratta di una semplice tradizione, dietro questi riti, dal sapore mitico e ancestrale, si cela qualcosa di più profondo e identitario, insito nel dna degli abitanti del luogo.

All’interno, il museo è organizzato in tre ambienti: una sala multimediale e due sale espositive.

Il percorso di visita inizia obbligatoriamente dalla sala multimediale: qui parte un vero e proprio viaggio alla scoperta delle maschere di Mamoiada.

L’allestimento ha un tono decisamente accattivante: sono presenti tre schermi, separati da tre spazi nei quali sono collocate le riproduzioni delle due maschere tipiche del paese, Mamuthones e Issohadores.

In questi schermi passa in rassegna una sintesi profonda dell’anima di Mamoiada; quello che rende tutto davvero suggestivo è la trama di intrecci tra immagini, musica e luci, che sottolineano, con luminosità intermittente al suono dei campanacci, le maschere poste ai lati degli schermi che rendono l’esperienza visiva davvero suggestiva e dal forte impatto. Questo primo ambiente, quindi, racconta attraverso delle immagini, accompagnate a testi, la storia delle maschere tipiche e le diverse teorie fatte dagli antropologi per cercare di spiegarne l’origine.

Nel secondo ambiente, la sala del carnevale barbaricino, sono rappresentate le maschere dei tre più importanti carnevali tradizionali: Mamoiada, Ottana e Orotelli.

Ci sono i Mamuthones e gli Issohadores che, come già è stato detto, rappresentano il carnevale di Mamoiada; si muovono sempre in coppia e sono sempre in un gruppo di 12 figuranti.

Vi sono differenti teorie circa l’interpretazione dell’origine di questi personaggi. Il Museo segue il filone di ricerca che vede le maschere come facenti parte di un ampio gruppo di mascheramenti, atti a celebrare dei riti propiziatori per l’inizio del nuovo anno. Sono gli opposti, il bene e il male, il bianco e il nero, la luce e le tenebre. A suffragio della teoria che riguarda il rito propiziatorio, c’è una tradizione che si ripete ogni anno: l’Issohadores, che gira con una corda, cattura le persone; le prede preferite solitamente sono le giovani donne.

Questo Museo è custode di una tradizione che si perde nella notte dei tempi. È difficile, infatti, indicare una cronologia precisa con la quale definire la nascita di queste maschere. È altresì interessante ascoltare i racconti che gli operatori del museo divulgano in modo davvero professionale. È da queste testimonianze, che si percepisce l’antichità di questi riti. Di particolare interesse sono gli elementi che compongono il mascheramento del Mamuthones. Ognuno di essi è composto da elementi profondamente simbolici e dalla forte carica apotropaica. Tra tutti la maschera: realizzata in legno nero di pero, che ha sempre un aspetto triste e grottesco.

Ogni maschera, almeno in passato, veniva creata da chi la doveva indossare e si diceva che più fosse brutta l’espressione, più la maschera risultasse bella. Alle spalle, legati a grappolo dal più grande al più piccolo, dei campanacci, usati per scacciare il male; questi vengono prodotti, tutt’ora, a Tonara, l’ultimo paese in Sardegna dove vengono lavorati a mano.

Le maschere di Ottana sono il Boes (bue) e il Merdule (il pastore). Anche in questo caso, si tratta di un rito propiziatorio nel quale il boes viene sacrificato, così che il suo sangue, versato sulla terra, possa dare nuova vita e un raccolto prospero. Il carnevale di Ottana, in origine, era formato da più maschere, alcune di queste sono custodite all’interno di una teca nella sala. Altra figura interessante del carnevale otzanesu, è la Filonzana: una figura ambigua, curiosa e spaventosa. Si tratta di un mascheramento femminile, che usano sempre gli uomini e che prevede un abbigliamento nero con  una maschera ghignante. Nelle mani porta con sé una rocca da cui pendono dei fili e una cesoia. La simbologia di questo personaggio, trae origine dal mondo greco delle Moire (le parche romane), nello specifico Atropo, una delle tre moire figlia della notte la quale “inflessibile”, con lucide cesoie recideva il filo della vita.

La Filonzana, come Atropo, ha il compito di tagliare, con lucide cesoie, il filo della vita, decretando così la morte.

L’ultimo carnevale tradizionale è rappresentato dagli Thurpos  di Orotelli. Questo mascheramento è molto differente da quelli appena trattati. I personaggi, infatti, sono vestiti con un cappotto in orbace e hanno il volto oscurato di nero, ottenuto utilizzando del sughero bruciato. Si muovono in tre: due sono legati, spesso con un giogo, ancora a simboleggiare la volontà di un rito propiziatorio per il mondo agropastorale.

Nella terza e ultima sala, la “Sala del Mediterraneo”, sono allestite maschere di tre ambiti geografici specifici: l’arco alpino, la penisola iberica, la penisola balcanica. Ognuno di essi presenta nette relazioni con le maschere del Carnevale sardo; è questa, probabilmente, la sala che definisce al meglio il ruolo di questa istituzione museale: non un contenitore ma un centro di studio e di approfondimento antropologico delle tradizioni carnascialesche del bacino mediterraneo.

Valerio Deidda