IL RIFLESSO

proponiamo un racconto di Roberto Deiana uscito nel sito RadioOndeCorte nel marzo 2018.

In un punto indefinito di un Paese fatto a forma di stivale viveva un uomo. Quest’uomo, che per comodità chiameremo Oreste, trascorreva la sua vita con grande attenzione. Era sempre ben rasato, curato, e soprattutto sempre informato. Leggeva i quotidiani, la mattina ascoltava sempre il giornale radio andando a lavoro e, durante i pasti, non poteva mancare la compagnia di un telegiornale in TV. L’uomo Oreste, giorno dopo giorno, osservava il mondo muoversi intorno a lui. Era orgoglioso di sentirsi democratico e moderato in una società democratica e moderata. Ma con il passare del tempo alcuni segnali lo portavano a pensare che la realtà stesse mutando. Le idee di libertà e democrazia che lo facevano sentire parte di una comunità iniziavano, un pochino alla volta, a sparire. “Nuvolette all’orizzonte”, pensava, “Niente di grave”. Nel giro di poche stagioni però termini come solidarietà, inclusione, condivisione, avevano lasciato il passo a termini come chiusura, respingimento, odio. E queste parole non piacevano all’uomo Oreste. Cercava di evitarle, di evitare le persone che si vantavano di queste parole. Si chiudeva in sé stesso, senza mai contrapporre le sue idee a quelle che sempre più di frequente si udivano nell’aria. Poi, un giorno, le parole, che nel frattempo si erano fatte sempre più minacciose, iniziarono a prendere corpo nei gesti, nel modo di vivere, nella vita sociale della comunità.

Quel giorno l’uomo Oreste, stanco e impaurito da ciò che gli capitava intorno, chiuse gli occhi e, grazie ai progressi della scienza, decise di farsi ibernare per non vedere quanto stava avvenendo. “Questo è solo un brutto momento”, pensava, “mi faccio un sonnellino di pochi anni e al risveglio tutto sarà come un tempo. Quando mi risveglierò ci sarà di nuovo la libertà e la solidarietà. Momenti di sconforto generale possono capitare. È un fuoco di paglia destinato a scomparire presto. Ora riposiamo e non pensiamoci più”. Questo pensava tra sé mentre il torpore del sonno cominciava a cullarlo. Culla oggi, culla domani, il tempo passava. Dieci anni era il tempo che l’uomo Oreste aveva deciso di dormire.

(Uno sparo; Due guerre; Tre bombe; Quattro muri; Cinque morti; Sei donne che piangono; Sette feriti; Otto palazzi crollati; nove orfani; Dieci anni).

Dopo dieci anni l’uomo Oreste aprì gli occhi. “Che dormita!” pensò subito, “ora mi sento proprio riposato”. Eh sì, era pronto a riprendere il suo posto nel mondo. Sentiva che il posticino che aveva lasciato era ancora lì ad aspettarlo. Per prima cosa volle sfogliare un quotidiano e guardare un telegiornale. Ora che aveva recuperato le forze voleva donare tutto il suo essere democratico e moderato alla società che, ne era certo, era sicuramente tornata alla solidarietà e alla libertà. Dopo essersi ben rasato e curato era lì, colmo d’emozione al pensiero di essere nuovamente informato.

Un titolo. Una pagina. Un giornale. Programmi di approfondimento, speciali, giornali radio.

L’uomo Oreste non credeva ai suoi occhi. Non poteva essere. Dov’era finito il suo mondo? Dov’era la sua società democratica e moderata? Non restavano che macerie. La realtà come l’aveva conosciuta lui non esisteva più. La libertà aveva ceduto il passo alla forza. La dittatura era ormai l’unica forma di governo riconosciuta in quel tempo presente e la parola Democrazia, per quanti articoli leggesse, non veniva mai nominata. Negli anni erano sorti muri intorno alle città, la paura aveva armato le mani e la violenza aveva avuto il sopravvento. L’odio e il sospetto erano il pensiero dominante. “Ma cosa hanno combinato mentre dormivo?”, si chiedeva incredulo, “Non ci credo. È un incubo. Forse sto ancora dormendo e sarà qualche effetto collaterale dell’ibernazione”.

Ma l’uomo Oreste capì ben presto di essere sveglio. Le persone che conosceva erano molto cambiate rispetto al passato. Ora si sentiva solo, senza amici, e andava in giro ripetendo tra sé quelle parole che gli ricordavano i bei tempi. Cercava ancora di sentirsi democratico e moderato. Sentiva, dentro di sé, di aver sbagliato qualcosa, eppure non riusciva a capire cosa. “Se ho dormito per dieci anni, come ho fatto a sbagliare?”, pensava. “Non ho fatto nulla. Non posso aver compiuto sbagli”. Oppresso da quel nuovo presente, decise di lasciare il punto indefinito di un Paese fatto a forma di stivale nel quale viveva. “Se la vedano loro”, si disse, “io non sono come questa gente e non ho voluto io tutto questo”.

E partì. Viaggiò a lungo in cerca di una società che fosse come lui l’aveva conosciuta in passato. Ma ogni ricerca fu vana. Un giorno, stanco dopo tanto camminare, giunse alla riva di un fiume. Pensò di fermarsi per trovare ristoro e rinfrescarsi un po’. Quando avvicinò il viso all’acqua si spaventò. Un viso scarno, cupo, stanco – la barba incolta – lo guardava: il suo viso. Com’era arrivato lì? Qual era stato il suo viaggio, e da dove era partito. Da quando. E, come per magia, il riflesso nell’acqua dell’uomo Oreste inizio a parlare. Parlava a lui. E le parole erano come pugnalate. “Oreste”, lo chiamavano, “Cosa hai fatto Oreste? Perché!”. Lui non capiva, quel riflesso lo accusava, ma di cosa?

“Oreste. Perché. Perché hai chiuso gli occhi Oreste. Perché hai lasciato il mondo al suo destino pensando che il tuo sonno non facesse la differenza. Hai preferito dormire quando era il tempo di agire. E tu non hai agito. Hai pensato che i segnali neri che vedevi fossero nubi passeggere e ti sei chiuso in te in attesa di un nuovo sole. Oreste. Quel sole non è spuntato perché tu non eri lì ad accoglierlo, a coltivare il suo calore”. L’uomo Oreste guardava il proprio riflesso, sempre più disperato.

“Hai demandato il tuo futuro. Dormendo, hai lasciato che un presente incerto sia potuto diventare un futuro terribile. E quel futuro, ora, è il presente. Tu, Oreste, avresti potuto fare la tua parte. E la tua parte avrebbe fatto la differenza. Forse sì, forse no, ma come puoi saperlo ora? Ora è tardi. Il tempo di agire era oggi. E il tuo oggi è passato”.

L’uomo Oreste lanciò un urlo straziante e pianse. Ora capiva. Capiva cos’era quel vago senso di colpa che sentiva. Pianse per i dieci anni di lotte che non aveva fatto. Pianse per le parole di libertà e democrazia che non aveva condiviso e curato. Pianse guardando le sue mani, quelle mani che avevano demandato ad altri le sue scelte, il suo spazio, i suoi ideali.

“Ora è tardi”, gli disse il suo io riflesso, “guarda, il sole inizia a svanire all’orizzonte. Il tuo tempo è un altro tempo. Non è più questo. Hai camminato tanto, ma guarda dove sei”. E l’uomo Oreste, alzando lo sguardo, vide ancora una volta un punto indefinito di un Paese fatto a forma di stivale. E sentì stringersi il cuore. Ne sentiva, struggente, la mancanza.

Guardò ancora una volta il proprio riflesso. Com’era bello nei giochi di luce del tramonto sull’acqua. Com’era bello. E così, stanco, si chinò per ammirare quei colori, e in quei colori si lasciò andare.

Roberto Deiana

Foto di Arek Socha da Pixabay