L’ATTESA

Ce l’aveva fatta. Era sopravvissuto. Più volte era stato sul punto di soccombere. Più volte la paura della sconfitta l’aveva spinto a resistere, ancora e ancora, aggrappato a quel po’ di vita che sentiva scorrergli nelle vene.

E ora ne era certo, il peggio era passato.

Come tutti in quel lungo periodo, aveva contato i giorni attraverso il calendario, segnandoli uno dopo l’altro, con la consapevolezza che quei segni erano lì a testimoniargli, davanti agli occhi, che il tempo scorreva. Lento, costante, inesorabile.

Al riparo, chiuso dentro le mura domestiche assisteva, immobile, al continuo sorgere e tramontare del sole. Che il tempo era cambiato era ormai evidente anche per un altro aspetto. Aveva chiuso il mondo fuori dalla porta in un giorno d’inverno, con il maglione e la giacca, e ora invece affacciato al balcone si sentiva investito dal tepore del sole. Era già quel calore tipico della tarda primavera. Anche i profumi nell’aria erano diversi: si riconosceva, chiaro, il risveglio della natura. I pollini che viaggiano nel cielo trasportati dal vento e l’erba vivida e rigogliosa erano segni inequivocabili che il tempo era passato.

E lui era lì. Chiuso, schiacciato nello spazio vitale della casa, schiacciato ma vivo.

L’ambiente intorno a lui – le strade, il paese – riprendevano pian piano a vivere. Anche i giornali scrivevano a caratteri cubitali che la vita poteva ripartire dopo lo scampato pericolo. Solo pochi giorni prima il silenzio e l’assenza regnavano sovrani. Ora invece voci, rumori di macchine, clacson, ripopolavano quello spazio sonoro rimasto a lungo vuoto.

Anche questo era segno che si poteva tirare un sospiro di sollievo.

Eppure… perché lui non si sentiva sereno? Perché ancora si ostinava a rifugiarsi nello spazio conosciuto, sicuro, della casa?  Perché quella libertà tante volte sognata ora lo spaventava?

Il mondo sembrava tornare ai suoi ritmi passati, e la vita alla normalità. Eppure, lui lo sapeva, era solo una normalità di facciata. Come un vestito nuovo indossato sopra una maglia vecchia e consunta.

Doveva riconoscerlo: nei momenti più difficili aveva sperato che ciò che aveva costretto tutti dentro casa potesse essere il motore di nuovo rinascimento.

Un nuovo inizio, anticipato da un evento che portasse via con sé la lordura di un mondo ormai moribondo, asfissiato e ripiegato su se stesso.

E invece ora si sentiva tradito, sconfitto. Quel che vedeva rinascere era esattamente il vecchio che tornava.

Sentiva chiaramente, anzi, che quel che sarebbe dovuto sparire per sempre ora tornava con voce rabbiosa a reclamare il proprio spazio, i propri diritti, esattamente dal punto in cui li aveva dovuti lasciare.

Lui inizialmente aveva sorriso di questo, pensando che quelle voci fossero solo gli ultimi rantoli di un mostro che sta morendo e non accetta di perdere.

Ora però non rideva più. Era chiaro che il mostro stava riacquistando nuova linfa, pronto a contaminare e avvelenare con i suoi tentacoli il nuovo mondo che sarebbe potuto nascere.

Non poteva e non voleva accettarlo.

E allora eccola, la scelta, non sofferta né temuta.

Come un novello Giovanni Drogo dentro la Fortezza Bastiani al confine con il deserto dei Tartari*, anche lui aveva deciso di non cedere, di non tornare più “alla normalità”.

Lo doveva a se stesso, alla sua onestà intellettuale. Troppe volte in passato aveva dovuto accettare compromessi, stringere mani che ripugnava, scendere a patti con quel tipo di società che non poteva più accettare.

E ancora oggi, dopo chissà quanto tempo, passando davanti a quella casa si può scorgere, dietro le tende della finestra che guarda verso il paese, un’ombra che passeggia avanti e indietro.

È ancora lì, in difesa del suo mondo. In attesa di un nuovo soffio, di un nuovo inizio.

Roberto Deiana

* ”Il deserto dei Tartari” – Dino Buzzati.

Foto di Myriam Zilles da Pixabay